Storia della Parrocchia

Le chiese dei santi apostoli Giacomo e Filippo

 

L’attuale santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei in Merone fu l’antica chiesa parrocchiale delle comunità di Moiana, di Merone e, in parte, anche di Incino. La prima notizia della sua esistenza risale al 1285. In tale anno, il 14 aprile, un certo Guglielmo Carcano, figlio di Giacomo, meronese, appartenente alla famiglia che esercitava la signoria in paese, destinò nel suo testamento un lascito ai canonici della chiesa plebana di Incino, affinché ogni anno fosse celebrata una messa in suo suffragio nella chiesa di san Giacomo presso Merone: nel testamento era precisata la cifra da elargire al prevosto e ai vari ecclesiastici, ma anche a tutti i poveri che fossero intervenuti alla cerimonia.[i]

Anche Goffredo da Bussero, vissuto nella seconda metà del XIII secolo, parlò di una chiesa esistente in “locho Merono”: era una di quelle che costituivano la pieve di Incino.[ii] 

Per lungo tempo nelle pievi, sorte in Brianza a partire dalla seconda metà del V secolo, esistette un’unica chiesa parrocchiale, con annesso battistero, dove annualmente si celebravano i battesimi. Era retta da un prevosto o arciprete coadiuvato da canonici: assieme costituivano il “capitolo” e conducevano vita in comune. In sostanza le chiese plebane riproducevano sul territorio il modello della chiesa “madre”, la cattedrale, dove risiedeva il vescovo. Con il passare del tempo, però, le chiese locali, sorte nei singoli villaggi, si dotarono di un loro patrimonio grazie alle offerte o ai lasciti dei fedeli e, attraverso successive trasformazioni, divennero prima “cappellanie”, poi “rettorie”.

Così, verso la fine del XIV secolo, anche se il prevosto figurava ancora come il parroco di tutta la pieve, nelle varie chiese andò costituendosi la figura di un rettore, che avrebbe poi portato, nell’arco del secolo successivo, alla nascita delle parrocchie vere e proprie. Nel 1466 fu pubblicata un’indagine sulla situazione della chiesa milanese, che registrava le parrocchie esistenti nelle varie pievi della diocesi: la pieve di Incino risultò suddivisa in ventidue parrocchie e il suo capitolo, che risiedeva presso la collegiata di santa Eufemia, era costituito dal prevosto, tredici canonici e due cappellani.[iii]

La chiesa di san Giacomo non si sottrasse a tale processo di trasformazione, anche se in verità avvenne molto lentamente: nel 1398 è definita “cappella”, solo nel 1565 “rettoria”; inoltre dal documento del 1398 si viene a conoscere quanto esiguo fosse il suo reddito, [iv] che rimase comunque sempre tale pure nei secoli successivi, se a distanza di oltre 150 anni le fu chiesto di versare un contributo di sole quattro lire per l’erezione del seminario diocesano. Nel 1564, infatti, san Carlo Borromeo, impegnato secondo le direttive del concilio di Trento nella costruzione del seminario diocesano, aveva imposto una tassa a tutte le chiese della diocesi e a tutti gli altri enti alle sue dipendenze. Nel “Liber Seminarii Mediolanensis”, fatto appositamente compilare con il dettaglio dei contributi dovuti, la chiesa di Moiana è così presentata: “Rettoria de Sancto Jacomo de la Ferrera alias de domino Antonio Pelizono, adesso de domino Francesco Carpano”.

Il documento, anche se essenziale nelle indicazioni, è particolarmente interessante: non solo fornisce il nome di due “rettori”, don Antonio Pellizzoni e don Francesco Carpani, ma rivela anche come la chiesa di Moiana, dedicata ai santi apostoli Giacomo e Filippo, fosse comunemente detta di “san Giacomo della Ferrera” per la località in cui si trovava; veniva pure denominata popolarmente “chiesa di san Giacomo in isola”, perché, come scrisse don Mario nel “Liber chronicus”, spesso le acque del lago di Pusiano e del Lambro, straripando, la circondavano da ogni parte, o forse, ancor meglio, perché davvero si trovava su una sorta di isola, circondata da qualche ramo del Lambro che, non ancora incanalato verso il lago, vagava per la pianura paludosa, prima di ricongiungersi in un unico corso con l’emissario del lago di Alserio.

Nel 1565 la chiesa di san Giacomo ricevette la prima “visita” da parte di un sacerdote inviato da san Carlo, che fin dagli inizi del suo episcopato milanese aveva reinserito l’antica pratica ecclesiastica delle visite pastorali. La descrizione che il “visitatore” ha lasciato della chiesa è abbastanza dettagliata: era rivolta a oriente, aveva un solo altare, non consacrato, ma fornito di pietra sacra; era a una sola navata e le pitture della volta, sopra l’altare, erano già notevolmente deteriorate; il fonte battesimale, in pietra, era stato trovato poco pulito; vi era istituita, secondo le disposizioni del cardinale, la “Scuola del SS. Sacramento e della Dottrina Cristiana”; non c’era né sacrestia né campanile; in chiesa non era conservata l’eucarestia e non c’erano reliquie.

Si trattava, insomma, di una chiesa povera, già in condizioni precarie, edificata in un luogo paludoso, che rischiava di rimanere abbandonata anche a causa della lontananza dalla casa del curato. Il visitatore era stato esplicito: “Non si tiene il Santissimo Sacramento in questa chiesa per la lontananza dalla casa del curato e per l’humidità et essendo la chiesa… in locho paludoso”. L’abitazione del curato si trovava sul colle della Ferrera, a qualche centinaio di metri di distanza: da lì, una sola campana, posta sulla casa, chiamava i fedeli alle funzioni sacre. Il curato era don Francesco Carpani di Ponte, che non risiedeva in luogo; aveva un vicecurato, che abitava da solo nella casa parrocchiale. Si trattava di Paolo di Urgnano, un frate domenicano della diocesi di Bergamo, che aveva licenza di insegnare la dottrina cristiana e di predicare il vangelo, teneva il libro dei battesimi e dei matrimoni, aveva mediocre pratica della scrittura ed era invece esperto nel canto.[v]

La chiesa di san Giacomo, pur essendo ancora una “rettoria”, funzionava ormai già come una parrocchia; oltre alle normali pratiche religiose, infatti, vi si amministravano i battesimi e i matrimoni e si svolgevano i funerali: il cimitero era situato immediatamente davanti alla chiesa, ma aveva il muro di cinta diroccato. La sua ubicazione, però, in luogo particolarmente umido e la lontananza dall’abitato la rendevano poco idonea alla pratica del culto: così già da allora si fece strada l’idea di abbandonarla per costruirne una nuova, vicino alla casa del curato, sulla collina.

Nel 1574 giunse in visita pastorale san Carlo Borromeo: egli fu a Merone sabato 24 aprile. Anche a lui la chiesa parve subito troppo piccola ed eccessivamente distante da Moiana e da ogni altra abitazione. Anzi trovò che, a causa dell’angustia dell’edificio, per aumentarne lo spazio interno, era stata realizzata una specie di tribuna, sulla quale, attraverso una scala in legno, la gente saliva per assistere alla santa messa; sul pavimento, poi, era stata fissata una sbarra di legno, nel mezzo, per separare gli uomini dalle donne.

In dieci anni le condizioni della chiesa, che continuava a essere sprovvista di sacrestia e campanile, erano ulteriormente peggiorate e anche il vicecurato aveva lasciato la sua abitazione, a causa del clima cattivo, e si era ritirato a Moiana in una casa concessagli in uso gratuito. Inoltre non esisteva più la “Scuola del SS. Sacramento”, a cui il cardinale teneva tanto e che subito rifondò, affinché i suoi iscritti potessero accompagnare il sacerdote quando portava l’eucarestia agli infermi.

La chiesa di san Giacomo, insomma, denunciava uno stato di crescente abbandono, ma questa era la condizione, in un certo qual modo, comune a tutte le chiese rurali del tempo, che inesorabilmente risentivano della grande povertà della popolazione. La stessa chiesa di santa Eufemia, capo pieve, fu trovata in uno stato di tale deterioramento che l’arcivescovo ordinò il trasferimento della titolarità della prepositura alla chiesa di santa Maria di Villincino.

Anche san Carlo si rese conto che la soluzione migliore sarebbe stata l’edificazione di una nuova chiesa: egli pensò a Moiana e indicò lui stesso il luogo più idoneo. Ci si ricordò della segnalazione del cardinale, più tardi, quando si intraprese la costruzione dell’oratorio di san Francesco. Intanto, però, bisognava intervenire sulla struttura esistente per adeguarla alle necessità del culto e, affinché si potesse conservare in chiesa il SS. Sacramento, era necessario che vi si costruisse a lato la casa parrocchiale. Per ottenere ciò il cardinale sarebbe stato disposto anche ad autorizzare la vendita di qualche bene parrocchiale. A tale proposito va osservato come in tutti gli atti della visita pastorale la chiesa di san Giacomo fosse ormai definita “parrocchiale”: il concilio di Trento, infatti, aveva ufficialmente riconosciuto l’istituzione delle parrocchie riunite in vicariato foraneo.[vi]

Ma la notizia più importante relativa alla chiesa ci giunge dalla visita che san Carlo fece al cimitero. Nel visitarlo il santo fu colpito da una volta semidistrutta e da altri resti di una chiesa demolita.[vii] E’ la testimonianza dell’antichità della “chiesa di san Giacomo de la Ferrera”. L’attuale non è l’edificio originario: ne esisteva uno più antico, andato purtroppo distrutto con il tempo.

Come d’abitudine, la visita pastorale di san Carlo funzionò non solo come un vero e proprio censimento spirituale della popolazione – volle sapere quanti in paese non si confessavano, se vi fossero concubini, usurai, eretici o superstiziosi, bestemmiatori, giocatori d’azzardo – ma anche civile: da essa si sa che gli abitanti della parrocchia in età di accostarsi alla comunione erano 170, distribuiti nei luoghi di “Moiana, Merone, Ferera, Casoto, Scepo e Molini”. La visita del cardinale mise ordine anche nella situazione dei legati di cui la chiesa godeva: generalmente consistevano nella celebrazione di messe, ma anche nella distribuzione di frumento ai poveri. Purtroppo spesso succedeva che con il tempo venisse meno l’osservanza degli obblighi assunti: il cardinale fu inflessibile nel difendere i diritti della chiesa e nel richiamare gli interessati all’adempimento dei propri doveri; addirittura autorizzò il curato a ricorrere al console del paese e minacciò di escludere i responsabili dai sacramenti della confessione e della comunione.[viii]

Il 22 giugno 1589 avvenne un’altra visita pastorale: questa volta il visitatore fu monsignor Pietro Barchio, dottore in teologia e diritto canonico. Dalla sua relazione si viene a sapere che le pitture della cappella maggiore non erano ancora state restaurate, ma che era stata costruita la sacrestia e che la chiesa era stata dotata di confessionale. Il visitatore, inoltre, diede ordine al parroco di non celebrare le funzioni religiose senza la presenza di un chierico o almeno di un ragazzo vestito con l’abito talare.[ix]

La situazione, però, restava precaria. Fu durante l’episcopato di Federico Borromeo che si cercò di risolvere definitivamente la questione, dando una nuova struttura alla parrocchia: il 5 agosto 1613, alla presenza del vicario generale, fu ipotizzata la ridefinizione dei confini parrocchiali tra Merone, Monguzzo e Moiana, dove era in fase di ultimazione la chiesa già auspicata da san Carlo.

La visita pastorale del 1615 avrebbe dovuto verificare la fattibilità del progetto. Ancora una volta si partì dalla costatazione che la chiesa della Ferrera era situata in piena campagna, al di là del Lambro, lontana dai paesi di Moiana e di Merone, scomoda da raggiungersi dai parrocchiani.[x] Sarebbe stato più conveniente che l’attività parrocchiale per le famiglie di Moiana e per quelle che abitavano “al di là del Lambro”,[xi] sulla sponda sinistra, si fosse svolta nella chiesa che si stava costruendo a Moiana sotto il titolo dell’Assunzione della Beata Vergine Maria (fu questa la dedicazione originaria dell’attuale chiesetta di san Francesco). A questo proposito il visitatore esortava i signori Carpani – i signori di Moiana, con il cui fondamentale contributo si stava realizzando l’opera – e tutta la popolazione a ultimare al più presto la costruzione dell’edificio, perché vi si potessero celebrare le sacre funzioni, conservare il Santissimo Sacramento, trasportarvi tutte le suppellettili indispensabili per il culto, la Scuola del Santo Rosario con tutte le sue indulgenze e il fonte battesimale. Si sarebbe dovuta costruire, vicino alla chiesa, anche una comoda casa per l’abitazione del rettore.[xii] Invece l’abitato di Merone, i mulini, le fornaci, la cascina Ceppo e tutte le famiglie residenti “al di qua del Lambro”,[xiii] sulla sua sponda destra, sarebbero dovuti passare, con il consenso di entrambi i parroci e della popolazione di Merone, sotto la parrocchia di san Biagio di Monguzzo. La divisione dei beni parrocchiali e delle rispettive rendite, per evitare l’insorgere di dispute o di discordie, sarebbe stata effettuata dal vicario foraneo, alla presenza di due testimoni scelti dalla popolazione, uno di Moiana, l’altro di Merone.

Intanto a Merone si sarebbe dovuta ampliare la chiesa di santa Caterina e dotarla di sacrestia e di torretta per le campane.[xiv] Anche qui, inoltre, si rendeva necessaria la costruzione della casa per il cappellano: egli avrebbe celebrato la messa due volte la settimana durante i giorni feriali; nei giorni festivi, oltre alla celebrazione della messa, sarebbe stato suo compito tenere di pomeriggio anche la scuola della dottrina cristiana.

Però, in attesa che il progetto potesse essere realizzato, si sarebbe dovuto provvedere anche alla chiesa della Ferrera, la cosiddetta chiesa dei santi Giacomo e Filippo “in insula”, come per la prima volta venne chiamata in un documento ufficiale. Dai decreti della visita pastorale si viene a sapere che, affinché non capitasse che qualche fedele, colpito da improvvisa malattia, morisse senza viatico,[xv] fu finalmente accordato il permesso di conservare il Santissimo Sacramento nel tabernacolo; però questo doveva essere, come già aveva richiesto san Carlo, dorato, rivestito all’interno di seta rossa e recante sulla sommità l’immagine di Cristo risorto: non sarebbe stata una spesa inutile, perché lo si sarebbe potuto trasportare, a suo tempo, nella nuova chiesa di Moiana.[xvi] Altre disposizioni lasciate dal visitatore furono la decorazione con immagini di santi della cappella maggiore – era stata, infatti, realizzata una cappella “minore” laterale comunicante con la sacrestia, ma l’ordine era di murarne la porta e di definire lo spazio della cappella con cancelli di ferro – di dipingere sopra il portale della chiesa i santi patroni e di collocarvi all’ingresso due acquasantiere, affinché le donne e gli uomini si aspergessero con l’acqua benedetta separatamente.[xvii]

Comunque la chiesa dei santi Giacomo e Filippo non sarebbe stata chiusa al culto, nemmeno dopo la consacrazione della nuova cappella di Moiana e il trasferimento di parte della parrocchia a Monguzzo. Vi sarebbero state celebrate due messe feriali ogni settimana: una da parte del rettore di Moiana, l’altra del cappellano di Merone. Ed erano previste sanzioni, se qualcuno fosse venuto meno all’impegno; si faceva eccezione solo per il cappellano di Merone, se, come talvolta succedeva, non avesse potuto raggiungere la chiesa a causa di qualche straripamento del Lambro.[xviii] La festa dei santi patroni si sarebbe dovuta celebrare solennemente a spese del parroco di Moiana, ma il cappellano di Merone aveva l’obbligo di intervenire, senza alcun compenso, alle cerimonie. Infine i fedeli di Merone, passati sotto la parrocchia di Monguzzo, avrebbero potuto ancora essere sepolti, qualora l’avessero richiesto, nella chiesa della Ferrera e nell’attiguo cimitero.

Alla fine il progetto restò solo nelle intenzioni e non se ne fece nulla, ma per la piccola chiesa deve essere stato un forte campanello d’allarme. Così si corse ai ripari e si mise mano al restauro. Si trattò molto probabilmente di un rifacimento pressoché totale, se il cardinal Visconti, quando vi giunse in visita pastorale nel 1686, la poté definire chiesa di moderna ed elegante struttura.[xix] Inoltre, invece di lamentare, come prima era abitualmente successo, la posizione isolata della chiesa, ne sottolineò la collocazione strategica, situata com’era a uguale distanza dai paesi di Moiana e di Merone.[xx]

I risultati della visita pastorale furono più che positivi. Nella chiesa vi erano due altari: quello maggiore nel coro, dotato finalmente di un bel tabernacolo di legno, elegantemente lavorato e indorato, in cui era conservato il Santissimo Sacramento; l’altro nella cappella della Beata Vergine del santo Rosario con annesso l’obbligo della celebrazione di sei messe durante la prima settimana di ottobre, come era stato disposto per testamento dal parroco don Carlo Francesco Carpani nel 1674. Erano venerate da antica data – secondo la testimonianza dei più anziani del paese – alcune reliquie di santi, di cui però non si conoscevano i nomi e che non erano nemmeno mai state sottoposte a ricognizione.[xxi] Le suppellettili sacre furono ritenute sufficienti e risultavano custodite con cura e decoro in sacrestia. Era stata collocata una campana anche sulla chiesa in aggiunta alle due che continuavano a esistere sul tetto della casa parrocchiale.

Anche questa volta, comunque, non mancarono i decreti. Tre in particolare: nella parete del coro, dal lato del vangelo, era necessario scavare una “fenestrella” per la custodia dell’olio degli infermi; nella cappella del fonte battesimale andava dipinta la scena del battesimo di Gesù; infine andava collocata la croce nel cimitero antistante la chiesa.

Intanto la popolazione era aumentata: dai tempi di san Carlo, infatti, si era più che raddoppiata, raggiungendo i 379 abitanti. Il Settecento non apportò alcuna novità di rilievo alla chiesa, che continuò a svolgere con soddisfazione il suo ruolo di parrocchiale per le comunità di Merone, Moiana e parte di Incino. Fu, invece, il piccolo cimitero a rivelarsi insufficiente, tanto che le amministrazioni comunali provvidero a realizzarne, poco distante, uno nuovo. Entrò in funzione nel 1788. Il 30 gennaio vi fu sepolto il primo defunto: un bambino di soli tre giorni.[xxii]

Tra Settecento e Ottocento lo sviluppo demografico del paese fu notevole. Dallo “stato delle anime” della parrocchia si sa che nel 1842 la popolazione complessiva era di 720 abitanti, di cui 210 erano i ragazzi. Nella seconda metà del secolo aumentò ulteriormente. Così, quando nel 1877 don Carlo Moranzoni fece il suo ingresso in parrocchia, si trovò subito di fronte al problema della inadeguatezza della chiesa, incapace ormai di contenere tutti i fedeli. La maggior parte della popolazione, per assolvere il precetto della messa domenicale, era costretta a recarsi nelle parrocchie vicine e durante la spiegazione della dottrina cristiana le donne “si radunavano in chiesa”, mentre gli uomini se ne stavano “a cielo scoperto” sulla piccola piazza.[xxiii] E questo nonostante l’aiuto offerto dai religiosi dell’Istituto Villoresi, che con i loro alunni trascorrevano le vacanze a Merone nel palazzo dei nobili Rasini Anguissola.

Ormai non era più possibile attendere oltre: bisognava procedere alla costruzione di una nuova chiesa. Fu don Moranzoni ad affrontare il problema. Ne parlò alla popolazione che rispose con entusiasmo, garantendo anche la prestazione di manodopera; aiuti arrivarono pure dalle parrocchie vicine. L’appello che il parroco aveva lanciato “alla pubblica carità” stava dando i suoi frutti e allora fu incaricato l’ingegner Tiberio Sironi di Verano, che prestò la sua opera gratuitamente, di redigere il progetto del nuovo edificio.[xxiv] Ne uscì un disegno grandioso per le dimensioni della parrocchia: “Chiesa grande, capace, maestosa, in forma di croce latina, ad una sola navata”.[xxv] Il preventivo di spesa fu di 61.583 lire.

Intanto il ministero, riconoscendo la necessità dell’opera, aveva autorizzato la “Prebenda parrocchiale” a vendere al parroco, che l’acquistò con denari propri e lo cedette poi alla “Fabbriceria”, il terreno sulla sommità della collina della Ferrera, “in luogo salubre ed ameno”, per l’edificazione della nuova chiesa; da parte sua la fabbriceria aveva chiesto alla prefettura di Como l’autorizzazione ad “alienare un certificato di Rendita dello Stato” per l’importo di 255 lire.

In poco tempo era stato raccolto circa un terzo dei fondi necessari. Avevano dato il loro contribuito vari ecclesiastici dei dintorni e tutti i signori di Merone e di Moiana.[xxvi] Così, fatte scavare dai parrocchiani le fondamenta, il 6 marzo 1880 fu benedetta e posata la prima pietra.[xxvii] Il 31 marzo il parroco comunicò alle tre amministrazioni interessate l’inizio dei lavori, presentando, nel contempo, una richiesta di contributo proporzionale alla popolazione di ciascun comune. Don Moranzoni aveva dalla sua parte la legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865 e ben tre pareri, assai recenti, del Consiglio di Stato. Ma dalle amministrazioni non giunse alcuna risposta. Don Moranzoni ritornò alla carica nel gennaio del 1881, avanzando anche la proposta di costituire una commissione di persone fidate, che di comune accordo tra amministrazioni pubbliche e fabbriceria vigilasse sull’opera e si adoperasse per recuperare i fondi necessari. Il parroco per avvalorare la sua richiesta si servì del “regio subeconomo di Asso”, il prevosto don Damiano Ratti. Un’altra lettera giunse al sindaco di Merone, in data 28 giugno, dalla prefettura di Como in cui si sollecitava la riunione del consiglio comunale per deliberare in merito al contributo richiesto. Il sindaco, d’accordo con i colleghi di Moiana e di Incino, rispose che era del tutto inutile la convocazione del consiglio, perché il comune non disponeva di fondi, essendo già impegnato a sostenere la spesa derivata dall’ampliamento del cimitero consortile. E tutto finì lì. Il comportamento delle amministrazioni comunali, però, non dipendeva da mancanza di sensibilità al problema. Le difficoltà erano oggettive: i comuni si trovarono a corto di soldi proprio nel momento in cui ne avevano maggiormente bisogno per far fronte alle crescenti esigenze.

I lavori per la costruzione della chiesa all’inizio proseguirono alacremente e in pochi mesi la struttura fu innalzata fino a sei metri circa dalle fondamenta. Poi i fondi di cui la fabbriceria disponeva e quelli offerti dalla generosità dei benefattori si esaurirono; non servì più nemmeno la prestazione gratuita di manodopera da parte degli abitanti. Così nel settembre del 1881 il parroco fu costretto a interrompere i lavori e la nuova chiesa restò lì, incompiuta, diventando, “come il tempio di Gerusalemme” – scrisse il parroco don Rodolfo Ratti – “la favola delle genti”.[xxviii]

Don Moranzoni non lasciò nulla di intentato. Nello stesso anno dell’interruzione dei lavori pubblicò un articolo sulla rivista “Il Leonardo da Vinci” di Milano in cui, dopo aver ripercorso le tappe fondamentali della vicenda, comunicava l’apertura di una sottoscrizione per la costruzione della chiesa. Sarebbe stato possibile far pervenire le offerte alla fabbriceria, allo stesso parroco e anche ai sindaci dei comuni interessati; i nomi dei benefattori sarebbero stati resi pubblici con apposito elenco e ricordati opportunamente nelle preghiere dei fedeli.[xxix]

Trascorsi due anni, don Moranzoni si rivolse nuovamente alle amministrazioni comunali. Era il 1883, e questa volta, per trasmettere la sua lettera, si servì della prefettura, che intanto si era adoperata per trovare una soluzione al problema. Il prefetto, infatti, aveva accertato che per portare a termine il primitivo progetto elaborato dall’ing. Sironi servivano ancora ben 42.000 lire, una somma del tutto sproporzionata alle possibilità finanziarie dei tre comuni. Allora avanzò al parroco due proposte: la prima fu quella di chiedere all’ingegnere la revisione del suo progetto per ridurne le dimensioni in modo da contenere il più possibile il costo dell’opera; la seconda, invece, consisteva nel ristrutturare la vecchia chiesa parrocchiale, utilizzando i materiali della nuova costruzione rimasta interrotta.

Fu preferita la prima ipotesi e la nuova perizia elaborata dall’ing. Sironi ridusse la spesa a 19.606,15 lire, che sarebbe poi stata successivamente arrotondata a 15.000. Su questa cifra il prefetto interpellò le tre amministrazioni. Il primo a rispondere fu il comune di Moiana, il cui consiglio si riunì il 23 marzo 1884. La situazione finanziaria era difficile: la spesa per l’ampliamento del cimitero aveva costretto il comune a sospendere, nel biennio 1881-1882, la restituzione del mutuo di 2.000 lire contratto per la realizzazione della rete ferroviaria Milano-Incino-Erba. Per tre anni non ci sarebbe stata alcuna possibilità di contrarre altri impegni. Inoltre il sindaco affermò che, a suo giudizio, la vecchia chiesa parrocchiale era ancora perfettamente in grado di soddisfare tutte le esigenze del culto e, comunque, avrebbe potuto essere sostituita dall’oratorio di san Francesco. L’assessore Isacco, a sostegno della tesi del sindaco, aggiunse anche ragioni di “sicurezza pubblica”, dal momento che il paese si doveva “spopolare ogni festa per recarsi alla parrocchiale lontana circa un miglio” e si dichiarò pronto a offrire personalmente una “messa festiva” per impedire tale esodo.[xxx]

Uguale esito ebbe la discussione nel consiglio comunale di Merone: visto che Moiana, “quale maggior interessato”, aveva declinato, “per ristrettezze economiche”, l’invito del parroco, non c’era motivo perché Merone si comportasse diversamente. Così la cosa fu lasciata a tacere per tre anni. Solo nell’ottobre del 1887, infatti, se ne riparlò e questa volta i consigli comunali, con parole di apprezzamento per l’operato del parroco, deliberarono il loro contributo: 3.000 lire Merone, 1.500 lire Moiana; ma la risposta era ben lontana dal soddisfare il bisogno. Il 15 novembre dello stesso anno il pretore di Erba scrisse al sindaco di Moiana, chiedendo informazioni sulla chiesa in costruzione e sulla disponibilità finanziaria della parrocchia. Era successo che la fabbriceria aveva inoltrato una richiesta di contributo al governo, dal momento che i sussidi comunali si erano rivelati inadeguati. E’ significativo che il sindaco per stilare la sua risposta si sia rivolto a don Moranzoni, riportando fedelmente le indicazioni fornite dal sacerdote.[xxxi]

Intanto il parroco, l’anno precedente, incoraggiato dall’arcivescovo di Milano mons. Calabiana, aveva rivolto un appello alla popolazione, ribadendo il suo proposito di portare a termine in ogni modo la costruzione della chiesa. Da una lettera di ringraziamento, indirizzata all’arcivescovo nel novembre del 1886, si apprende che l’appello del parroco era andato a segno: alcune famiglie della parrocchia gli avevano consegnato in una sola giornata più di 7.000 lire e tutta la popolazione, specialmente “l’operaia”, si era impegnata a versare un contributo mensile.

Finalmente i lavori potevano essere ripresi. Stipulati i contratti con i capimastri Frigerio Lazzaro di Orsenigo e Pozzoli di Lurago, ci si rimise all’opera. I lavori si conclusero nel 1888. Il 12 ottobre dello stesso anno avvenne la consacrazione della chiesa alla presenza di mons. Calabiana e con l’intervento di mons. Moscaretti, vescovo di Zama. Fu allora che l’arcivescovo di Milano, giunto sulla soglia della chiesa che vedeva per la prima volta, meravigliato della sua grandezza e al corrente di tutti i sacrifici che la sua costruzione aveva comportato, esclamò: “Ecco la chiesa del miracolo!”.[xxxii]

I postumi della vicenda furono ancora di ordine finanziario: don Moranzoni cercò di ottenere dal comune di Moiana l’integrazione di 1.500 lire per adeguare il contributo a quanto deliberato da Merone, ma inutilmente; la risposta del sindaco in data 1897 fu recisa e toglieva ogni speranza di poter ottenere un qualche contributo prima del 1900.[xxxiii]

Anche la nuova chiesa parrocchiale fu dedicata ai santi apostoli Giacomo e Filippo e come compatrono le fu assegnato san Carlo Borromeo, il santo di cui don Moranzoni, che con tanta perseveranza l’aveva voluta, portava il nome. La vecchia chiesa della Ferrera dovette cederle le proprie suppellettili sacre, in particolare l’altare, ma in tal modo essa diventò inutilizzabile per il culto. Si rendeva necessario, pertanto, pensare a una nuova destinazione. Nel 1891 fu dato incarico all’ing. Viganò di redigere una stima dell’immobile. Egli ipotizzò di trasformarla in magazzino per deposito di materiali, vista l’eccessiva vicinanza al cimitero, anche se non sarebbe stato impensabile un uso abitativo, grazie alla situazione favorevole dei venti che soffiavano dal lago di Pusiano.

Dalla relazione dell’ingegnere, comunque, si viene a sapere che il piazzale antistante la chiesa era in parte ricoperto con selciato, in parte destinato a “prato ammoronato” con ventitre gelsi “in buono stato di vegetazione”, e che nel complesso l’intero fabbricato, eccetto alcuni pavimenti, era ben conservato. La chiesa aveva tre cappelle laterali –  nella prima a destra era collocato il fonte battesimale – ed era dotata anche di organo; oltre alla sacrestia, vi era pure l’abitazione del sacrestano e, rivolto “a mezzodì”, un “portichetto aperto”.[xxxiv]

L’idea, però, di dare alla chiesa una destinazione civile fu subito abbandonata e si pensò di trasformarla in santuario dedicato alla Beata Vergine del Rosario di Pompei. Con tale titolo, infatti, fu registrata negli atti della visita pastorale effettuata dal cardinal Ferrari nel 1898. Era “chiesa sussidiaria” e disponeva di tre altari: “il primo privilegiato” della Beata Vergine del Rosario, il secondo dedicato “al Santo Crocifisso”, il terzo “a San Giuseppe”; l’organo era diventato inservibile e non vi erano dipinti. La chiesa godeva dei “privilegi speciali della Compagnia del Rosario”.[xxxv]

La visita del cardinal Ferrari fornì anche altre notizie interessanti sulla vita della comunità parrocchiale. Gli abitanti erano diventati 1.251, di cui 341 inferiori ai dieci anni; ben novanta erano i cresimandi d’età superiore ai sei anni; dieci uomini e tre donne non avevano soddisfatto il precetto pasquale. Don Moranzoni, nella sua relazione all’arcivescovo, così scrisse: “I costumi del popolo sono buoni, anche se purtroppo vi è indifferenza per la religione; si tengono rarissime volte balli, mai spettacoli scandalosi. Non vi sono società anticattoliche, né vi sono stati tenuti discorsi antireligiosi, circolano giornali cattivi, libri è un caso raro…” Assicurava che pochi erano gli emigrati dalla parrocchia, segno che il lavoro in paese non mancava. C’era “frequenza al Vangelo”, “poca alla Dottrina”; si lamentava che gli uomini si accostassero raramente ai sacramenti, ma era soddisfatto che fosse praticato “con fervore” il “mese di Maggio” con la recita del rosario. Tutte le feste si teneva la scuola della dottrina cristiana, divisa per classi, ma la frequenza era scarsa: vi erano buone maestre di dottrina per le donne, mentre non c’erano maestri per gli uomini. Ogni domenica – d’inverno alle ore nove, d’estate alle otto – il parroco o il coadiutore “spiegava il vangelo”, ma non si predicava “né l’Avvento, né la Quaresima” a causa della dispersione del paese in frazioni e del lavoro negli opifici. Ogni terza domenica del mese si svolgeva la processione del Santissimo Sacramento. Il parroco non aveva difficoltà ad assistere gli ammalati. I matrimoni si celebravano sempre in chiesa, al mattino, ed erano poi seguiti “dall’atto civile”; gli sposi si confessavano e comunicavano e si impartiva alle puerpere la benedizione di rito. Erano celebrate con solennità le feste dei santi patroni e della dedicazione della chiesa, ma soprattutto la festa della Madonna del Rosario e di san Francesco. Infine don Moranzoni assicurava che nell’ultimo quinquennio non vi erano stati funerali civili e auspicava che fosse impedita “l’apertura delle osterie durante le funzioni religiose”.[xxxvi]

Nel 1907 il cardinal Ferrari fu di nuovo a Merone e a proposito del “santuario di Pompei” confermò quanto detto nella visita precedente; aggiunse solo che vi si celebravano “i quindici Sabati” in preparazione alla festa della Madonna del Rosario. Nel 1923 fu collocata in chiesa la via crucis, opera di “frate Achille dei Cappuccini” e “donata dalle donne di Stallo”: il cardinal Tosi la dotò di indulgenze. Nel 1934, “a chiusura e ricordo dell’anno santo”, don Mario Caldirola, parroco dal 1932 al 1960, fece collocare sulla colonna antistante la chiesa una “artistica croce in ferro”, avuta in dono dal parroco di Inverigo, di cui era stato a lungo coadiutore, opera del “fabbro Villa” di Santa Maria. Nell’occasione furono benedetti e distribuiti alle famiglie “più di duecento crocifissi”.[xxxvii]

Poi fu il momento dei restauri: era già intervenuto don Giovan Battista Riva, parroco di Merone dal 1913 al 1920. Nel 1937, però, la situazione si presentò di nuovo seria: il tetto era completamente da rifare. Fu in questa occasione che la struttura dell’edificio fu portata tutta allo stesso livello, eliminando il lucernario nella cappella di san Giuseppe e rialzando anche il piccolo campanile. Fu decorato pure l’interno della chiesa ad opera del parrocchiano Ugo Riccardi: le pitture, invece, erano già state eseguite da don Mario Tantardini di Arcellasco, che aveva operato in parrocchia come coadiutore dal 1912 al 1925, prima di passare alla Scuola Beato Angelico di Milano. La decorazione riuscì di “comune soddisfazione”.[xxxviii]

 Nel 1945 il cardinal Schuster, in visita pastorale, non trovò confacente la luce elettrica sull’altare del santuario, perché non “compresa fra la suppellettile liturgica”: molto meglio la semplice candela. Schuster ritornò più volte a Merone ed ebbe modo di apprezzare le virtù di don Caldirola, che definì un “ottimo parroco”.

Un altro importante intervento di restauro fu effettuato nel 1974, mentre era parroco don Rosolindo Milani. I lavori consistettero principalmente nel rifacimento dei pavimenti e dell’intonaco esterno, nell’ampliamento della sacrestia, nel restauro dei dipinti e delle decorazioni e nella formazione di una nuova torretta campanaria su cui collocare le due campane già esistenti. Intanto l’antica cappella del fonte battesimale era stata sostituita, non si sa quando, da quella di san Rocco.

L’ultimo restauro fu intrapreso nel 1999 da don Luigi Vergani. Sotto la direzione dell’arch. Carlo Ripamonti si provvide al rifacimento dell’intera copertura, compresa la ristrutturazione delle capriate, alla rimozione dell’intonacatura per il recupero dello stato originario delle facciate e alla sistemazione dell’area circostante il santuario. Particolare fu il modo con cui i lavori furono sovvenzionati: oltre alle offerte libere, fu promosso il coinvolgimento della popolazione con l’acquisto “simbolico” di tegole per il tetto e di formelle per il soffitto interno della chiesa.[xxxix]

E la nuova chiesa parrocchiale? A lungo restò nella memoria della gente la festa per la sua consacrazione il 12 ottobre 1888: “… festa simile per entusiasmo e per concorso di popolo né si vide né mai forse si vedrà”.[xl] Negli anni successivi il parroco Moranzoni provvide alla sua decorazione, affidandola al pittore Beghé di Saronno, che realizzò anche le pitture  della volta.

Non è dato sapere con precisione il costo complessivo dell’intero edificio. Nella relazione di collaudo dell’ing. Sironi la spesa della pura costruzione ammontava a 70.110 lire e 60 centesimi. Se si aggiungono, però, le spese di decorazione, di pittura, di pavimentazione e delle necessarie suppellettili sacre non è esagerato pensare che la cifra si sia potuta avvicinare alle centomila lire: una somma impressionante per una parrocchia di 1.300 anime, con una popolazione “per la maggior parte operaia ed agricola”. Certamente fu grande la generosità dei parrocchiani, che offrirono gratuitamente tutta la manodopera possibile, organizzarono pesche di beneficenza, ma anche destinarono alla chiesa intere giornate di lavoro: ad esempio si lavorò il 1° maggio, festa patronale, che diversamente sarebbe risultata giornata di riposo. Così nel 1905 la festa fu sospesa e tutti lavorarono “per le nuove campane”: la giornata fruttò 800 lire. La cosa si ripeté nel 1925: la festa fu trasferita alla domenica successiva e il 1° maggio si lavorò “per l’acquisto dei paramenti sacri”, che erano stati rubati. Nel 1931 la messa solenne e le funzioni dei vesperi si celebrarono al mattino presto e alla sera tardi, per dar modo a tutti di lavorare “offrendo il guadagno per le spese della facciata della chiesa”.

Nel 1902 don Moranzoni avrebbe festeggiato i venticinque anni di permanenza in parrocchia e nutrì il progetto di solennizzare la ricorrenza con la realizzazione di altre due opere: la costruzione del campanile e il concerto di campane. I lavori per la costruzione del campanile furono affidati al capomastro Pozzoli di Lurago, che li iniziò nell’aprile del 1901. Prima però che i lavori potessero essere ultimati e a un mese dalla sua festa giubilare, il parroco morì a Milano il 12 maggio 1902 in una casa di cura, dove era stato necessario ricoverarlo. La sua salma fu trasportata a Merone e accompagnata al cimitero con grande “riverenza e venerazione” da tutta la popolazione, che, come già il parroco aveva fatto a favore dei principali benefattori, volle perpetuarne la memoria con una lapide speciale, posta in chiesa.

A don Moranzoni succedette il parroco don Rodolfo Ratti, che completò le opere iniziate dal suo predecessore. Per prima cosa mise mano al concerto delle campane, istituendo un’apposita commissione che ne seguisse i lavori. Le campane furono fuse a Milano dalla ditta Barigozzi il 12 agosto 1905 e vennero trasportate in parrocchia il 24 agosto: le accompagnò tutto il popolo in festa con un corteo che aveva “un po’ del carnevalesco” senza essere, però, “disdicevole”. Erano cinque campane dal peso complessivo di settanta quintali: il “campanone” recava inciso, oltre alle immagini del Crocifisso, della Madonna del Rosario, dei quattro evangelisti, la scritta latina: “Laudo Deum verum, congrego plebem”; la “quarta” campana la scritta: “Laudo Deum verum, congrego clerum”. Il 25 agosto le campane furono solennemente consacrate e nei giorni successivi innalzate al loro posto sul campanile. La sera del 16 settembre mandarono i loro primi rintocchi e la sensazione tra la gente fu enorme: “un effettone!”, scrisse don Ratti.

Alla consacrazione delle campane assistette anche il cugino del parroco, don Achille Ratti, che in seguito sarebbe diventato, prima, prefetto della Biblioteca Ambrosiana e della Biblioteca Vaticana, poi arcivescovo di Milano e infine, il 6 febbraio 1922, papa con il nome di Pio XI. Achille Ratti, negli anni del suo primo soggiorno milanese, veniva frequentemente a Merone, ospite del cugino nella casa parrocchiale, dove trovava sempre preparata la sua stanza, detta dai famigliari “la stanza di don Achille”. Al mattino, con il primo treno, ritornava in città per la celebrazione della messa. Il 7 luglio 1933 papa Pio XI ebbe occasione di ricordare la sua presenza alla cerimonia della consacrazione delle campane, quando ricevette in “una saletta speciale”, assieme ad alcuni sacerdoti tedeschi, una piccola comitiva di parrocchiani meronesi, che si era recata a Roma per il giubileo. Sentito il paese di provenienza, il papa esclamò: “Oh, Moiana!… Suonano ancora bene le vostre campane? Eravamo presenti anche Noi alla loro consacrazione…”.[xli]

Il concerto si rivelò subito uno dei migliori della zona. Purtroppo nel 1942, durante la campagna di requisizione del bronzo, la “quarta” campana e il “campanone” dovettero essere consegnati. La campana fu restituita intatta, dietro pagamento, l’anno successivo; il campanone, invece, “fracassato” dopo l’armistizio dell’8 settembre, non poté essere reso: bisognò pagare un quantitativo equivalente di bronzo e fonderlo di nuovo. Passarono così degli anni e il concerto venne ricostituito solo nel 1947. Il 30 aprile il campanone poté suonare “a distesa”: un “brivido di commozione” invase tutti.[xlii]

Nel 1913 don Rodolfo Ratti, nominato prevosto di Asso, lasciò il posto a don Giovan Battista Riva. Il nome di questo parroco è legato alla “carità generosa” con cui assistette la popolazione durante “l’epidemia della spagnola” e al sostegno che diede ai soldati e alle loro famiglie durante la “grande guerra”. Proprio durante il periodo bellico edificò l’oratorio maschile per l’educazione dei ragazzi, a cui dedicò grandi cure assieme al suo coadiutore don Mario Tantardini. In quegli anni fu fondata in oratorio la “Unione Giovani Cattolici Benedetto XV” e anche una “Compagnia Filodrammatica”, diretta dal Tantardini, che ne attrezzò e decorò il palcoscenico. Nel 1920, però, don Riva fu ricoverato d’urgenza all’Ospedale Maggiore di Milano e lì morì in seguito a un’operazione.

Gli subentrò nel 1921 don Erminio Casati. Con lui ripresero i lavori per la sistemazione definitiva della chiesa parrocchiale. La sua prima opera fu la costruzione dell’organo, realizzato dalla ditta Maroni Giorgio di Varese e inaugurato il 1° maggio 1926 in occasione della festa patronale. Il disegno complessivo era stato predisposto da Tantardini, mentre la cassa in legno fu confezionata dalla ditta Sala Luca di Moiana. Nel 1949 si rese necessario un intervento di riparazione e di pulitura generale; in tale occasione l’incaricato dei lavori, Giovanni Bianchi di Casciago, che, a detta di don Caldirola, in dieci giorni aveva compiuto “un’opera veramente lodevole per intelligenza e assiduità”, lo giudicò “un ottimo strumento”.   

Nell’aprile del 1931 iniziarono i lavori per la realizzazione della facciata della chiesa. Il disegno, molto lineare ma non privo di una classica eleganza, fu predisposto dalla Scuola Beato Angelico di Milano. L’inaugurazione avvenne il 29 agosto e per l’occasione fu illuminato “con luci elettriche” il campanile. Nel 1943 don Mario Tantardini dipinse la lunetta sopra il portale del pronao: nel progetto primitivo si sarebbero dovuti raffigurare i santi patroni; fu invece realizzato il “buon Pastore”, dipinto che piacque “assai a tutti”.

Nel 1932 don Casati divenne prevosto di Erba e a Merone fu inviato don Mario Caldirola: nativo di Besana Brianza, era già stato coadiutore a Monguzzo fino al 1918 e poi a Inverigo. Nell’intraprendere la sua attività di parroco, don Mario rivolse un’attenzione particolare alla chiesa: riteneva infatti necessario completarne la decorazione interna, ma soprattutto voleva dotarla di un altare più grande. Le cose, però, andarono diversamente, come puntualmente documentato dalle sue annotazioni nel “Liber chronicus”.

Nel 1936 restaurò la cappella del fonte battesimale. La volle conservare nella sua forma originale: al centro, posta su un basamento di marmo, la “vasca” battesimale, che, ripulita e lucidata, in mancanza di ciborio ricoprì con un conopeo bianco; al pittore C. Gadda della Scuola Beato Angelico di Milano affidò l’affresco del “Battesimo di Gesù al Giordano”, secondo i canoni iconografici suggeriti dallo stesso san Carlo: il lavoro risultò ben“studiato”, ma, a giudizio del parroco, inadeguato nella “espressione”; infine fece rimettere a nuovo la piccola cancellata, perché, delimitando l’accesso alla cappella, ne sottolineasse la sacralità.

Nel 1939, in occasione della festa patronale del 1° maggio, cominciò “a battere le ore” il nuovo orologio collocato sul campanile a spese dell’amministrazione comunale: un “ottimo servizio” per la comunità. In settembre, invece, ebbe luogo la benedizione della Via Crucis offerta da alcune famiglie della parrocchia. Fu dipinta dal pittore Briani e dall’Istituto degli Artigianelli di Monza. Le croci, poste sopra i singoli quadri, furono inviate da Gerusalemme.

La guerra, con il suo innumerevole carico di sofferenze, impose necessariamente la sospensione di ogni lavoro: le condizioni materiali della popolazione non consentivano certo l’assunzione di impegni economici e, inoltre, le attenzioni del parroco erano rivolte ad altri più ben gravi problemi della comunità.

Il dopoguerra a Merone iniziò con un atto di devozione alla Madonna: il 30 settembre 1945, infatti, la statua della Vergine fu portata per tutte le strade del paese accompagnata dalla musica, dai canti e dalle preghiere di ringraziamento della popolazione. A Merone fece tappa anche la “Madonna Pellegrina”, che dal 1946 al 1951 attraversò tutta l’Italia. Vi giunse dalla parrocchia di San Maurizio di Erba la sera del 20 settembre 1947: fu accolta presso il casello ferroviario di Pontenuovo, alle 22.30, e fu accompagnata in processione, “con le fiaccole accese”, a Moiana; ritornati sulla strada provinciale, a Betlemme, si svolse la cerimonia di consegna alla parrocchia di Suello. Doveva essere soprattutto un momento “penitenziale” – scrisse il parroco – invece, per non “restare al di sotto degli altri paesi”, la gente, nonostante le raccomandazioni, esagerò in “luminarie ed apparati esterni”.

Con la ripresa economica del dopoguerra il pensiero del parroco ritornò alla chiesa. Il progetto che maggiormente gli stava a cuore era la realizzazione di un nuovo altare: quello esistente, infatti, sembrava a tutti troppo piccolo e poco adatto alla grandiosità dell’edificio. La pratica, però, ebbe inizio solo nel 1957. Ne fu incaricato lo scultore Angelo Casati di Inverigo, che, dopo un sopralluogo, approntò due progetti: il primo più lineare, l’altro “più ricco”, abbellito da un tempietto centrale. Il 3 marzo 1958 i due disegni furono esposti in chiesa all’attenzione della popolazione, che scelse il secondo, ma la Commissione di Arte Sacra non l’approvò proprio perché il tempietto, che tanto piaceva, era “troppo moderno”, in contrasto con le caratteristiche della chiesa.

Pertanto furono richieste modifiche. Ma il 12 settembre ecco il colpo di scena. Il presidente della Sovrintendenza ai monumenti di Milano, accompagnato da mons. Villa della Commissione d’Arte Sacra, visitò la chiesa e decretò che il suo altare era antico e, come tale, non si sarebbe dovuto sostituire con nessun altro. “Pazienza!”, scrisse il parroco e il progetto fu messo da parte. Gli fu consentito solo di porre ai margini dell’altare le sculture in legno dorato di due angeli, che commissionò allo scultore Capuccini di Erba. Vi furono collocate il 2 settembre 1960, ma don Caldirola non ebbe la soddisfazione di vederle: era morto il 12 agosto di quello stesso anno.

E le decorazioni? Ne fu incaricato il pittore Cornali di Bergamo, che affrescò sei grandi scene ispirate al vangelo: quattro sulle pareti della navata e due in presbiterio. Fu l’ultima opera che il parroco poté seguire. I lavori furono conclusi, infatti, una settimana prima della sua morte.

Dovettero passare più di vent’anni perché il sogno di don Caldirola potesse essere realizzato. L’occasione fu la celebrazione del primo centenario dell’edificazione della chiesa. I lavori preparatori iniziarono dieci anni prima, nel 1978, con il rifacimento completo del tetto e delle facciate laterali. Solo da un anno era diventato parroco don Attilio Meroni, subentrato a don Rosolindo Milani, ideatore della “casa della giovane”, iniziata nel 1965 e completata  con l’aggiunta di un piano rialzato nel 1970.

Nel 1988 don Meroni, che fu veramente “il parroco del centenario”, rimise a nuovo la “chiesa del miracolo”. Fu effettuato il restauro della decorazione della volta e delle pareti, fu realizzato un nuovo impianto di illuminazione e rifatta la sacrestia, ma soprattutto fu studiata una sistemazione organica del presbiterio per adeguarlo alle richieste della riforma liturgica, scaturita dal Concilio Ecumenico Vaticano II, che aveva reintrodotto la celebrazione rivolta verso i fedeli secondo l’antico uso della chiesa primitiva.

Lo studio fu affidato alla Scuola Beato Angelico di Milano. La prima proposta fu di riportare il vecchio altare nella sede originaria della chiesetta di Pompei, da dove era stato prelevato, ricomponendolo nelle sue parti autentiche. La Commissione Diocesana d’Arte Sacra, però, non accordò il permesso e volle mantenere in sede l’antica struttura: privata della mensa, sarebbe servita come trono eucaristico per la conservazione del Santissimo Sacramento. Anche il pulpito fu conservato al suo posto, nonostante avesse ormai perso ogni funzione pratica.

Nuovo fu, invece, il progetto che ridisegnò gli altri elementi essenziali del presbiterio, tutti realizzati in marmo di Roano: dapprima l’altare, in un unico grande blocco, con la scultura in primo piano dell’Agnello, come appare nella visione dell’Apocalisse di san Giovanni; poi l’ambone su cui sono effigiati i santi protettori Giacomo e Filippo; infine, in posizione simmetrica, i tre seggi gerarchicamente disposti secondo la tradizione ambrosiana.

A completamento dei lavori vennero realizzate anche le nuove vetrate della chiesa. In stile moderno, con elementi chiaramente simbolici, sono sviluppati, in un gioco di linee curve e spezzate e in diverse tonalità di colore, i temi fondamentali della vita di Gesù: nella cappella della Madonna le due vetrate raffigurano l’annunciazione e la nascita del Redentore; nella cappella di san Giuseppe è messo in rilievo il tema della discesa dello Spirito Santo con il battesimo di Gesù e la pentecoste; le vetrate del presbiterio richiamano il momento culminante della redenzione con la morte e la resurrezione del Salvatore; infine nella lunetta sopra l’ingresso principale è rappresentata la Gerusalemme celeste.

Grandiosa fu la cerimonia della consacrazione del nuovo altare, presieduta dall’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini, che rappresentò il momento culminante delle celebrazioni del centenario. Caratteristica fu anche la messa in scena –  con la partecipazione del parroco, della compagnia teatrale “Il ponte” e della Schola cantorum – di una sacra rappresentazione, che consentì alla popolazione, presente numerosissima in chiesa, di conoscerne la storia: una storia antichissima, se la si ripercorre dalle origini, sviluppatasi nel nome dei santi apostoli Giacomo e Filippo, che ha unito intorno alla chiesa la comunità religiosa e civile.

 

 

La chiesa di santa Caterina

 

Si trova a Merone ed era inserita, come cappella, nell’antico palazzo Carpani. Non si conosce l’epoca della sua costruzione ed esistono notizie contrastanti sulla sua dedicazione. Don Mario Caldirola nel “Liber chronicus” riferisce, senza però dichiarare la fonte della notizia, che “anticamente” era dedicata a San Carlo e che solo successivamente fu dedicata a santa Caterina da Siena; anche “La guida della diocesi di Milano”, che annualmente registra tutte le parrocchie ambrosiane con l’indicazione precisa delle chiese esistenti sul territorio, a Merone colloca la “chiesa di S. Caterina da Siena (già S. Carlo)”.

In realtà la cappella negli atti delle visite pastorali, a partire da quella effettuata per ordine di san Carlo nel 1565, fu sempre citata come “chiesa di santa Caterina”. Il problema, piuttosto, riguarda l’identificazione della santa. La convinzione che si tratti di santa Caterina da Siena è abbastanza recente. Invece nei decreti della visita pastorale effettuata dal cardinal Visconti nel 1686 la chiesa risulta dedicata a santa Caterina vergine e martire.[xliii] Dunque non santa Caterina da Siena, ma santa Caterina d’Alessandria, la giovane che nel 304 subì coraggiosamente il martirio in quella città per difendere la propria fede cristiana. Una tale dedicazione è più corrispondente all’antichità della chiesa e nello stesso tempo ne è, a sua volta, una testimonianza. Nell’alto Medioevo santa Caterina d’Alessandria, assieme a santa Eufemia, fu assunta a simbolo dell’ortodossia e fu comunemente rappresentata con a fianco una ruota dentata, strumento del suo martirio, e con in mano il libro della sapienza. Celebre, ad esempio, in Brianza è il dipinto attribuito a Marco d’Oggiono che raffigura la Madonna con il Bambino in trono tra santa Eufemia e santa Caterina d’Alessandria: il dipinto originariamente si trovava nell’antica chiesa romanica di Oggiono, preesistente all’attuale.

Dell’esistenza di una chiesa a Merone riferì anche Goffredo da Bussero nella seconda metà del XIII secolo, ma la disse dedicata ai “Santi Angeli”.

A più riprese negli atti delle visite pastorali ritornò il problema dell’ampliamento della chiesetta: infatti, pur essendo di “patronato privato” – apparteneva ai nobili proprietari del palazzo –, accoglieva alle funzioni religiose anche gli abitanti del paese. Soprattutto nella visita pastorale del 1615 si insistette perché fosse dotata di sacrestia, di una torretta campanaria e dell’abitazione per il cappellano: egli aveva l’obbligo di celebrare ogni domenica – ma anche due volte la settimana durante i giorni feriali – la messa e di tenere la scuola festiva della dottrina cristiana.

La chiesa possiede “una preziosa pala d’altare”, che raffigura “la Vergine con il Bambino, San Giovanni e gli Angeli”. Sulla parete di sinistra si trova un’altra tela “di squisita fattura” rappresentante “l’Addolorata con il Cristo Morto”.[xliv] A tale proposito don Caldirola annotò nel “Liber chronicus” che a Merone si celebrava solennemente “la festa della Madonna dei sette dolori”, solennità poi caduta in disuso.

La chiesa subì vari restauri e sopravvisse alla vendita del palazzo ai privati: ora è di proprietà parrocchiale e negli ultimi decenni del secolo scorso fu ampliata con l’annessione di un locale adiacente.

Per secoli a officiare le sacre funzioni, come era tradizione della nobiltà, fu il cappellano di famiglia. L’ultimo fu don Pietro Orsenigo. Ordinato sacerdote nel 1888, giunse a Merone nel 1901, come cappellano dei marchesi Monticelli Orbizzi, e vi rimase fino alla morte nel 1944. Di lui lasciò un affettuoso ritratto don Caldirola, a cui don Pietro prestò con generosità il proprio aiuto, dopo che la parrocchia di Moiana-Merone era rimasta senza coadiutore. Anzi si può dire che fosse diventato il coadiutore di tutta la zona: “Don Pietro c’era sempre e dappertutto: non diceva mai di no”.[xlv]

Fu uomo di buon carattere: “Amato e apprezzato da tutti, pio, semplice, bonario, godeva la simpatia generale”. Infaticabile camminatore, girava sempre a piedi. Non predicò mai, ma la sua vita fu “una predica di buon esempio”.

Nel 1938 Merone ne celebrò il cinquantesimo anniversario di ordinazione sacerdotale: il 19 marzo nella cappella di santa Caterina; il 18 aprile in chiesa parrocchiale, dove giunse accompagnato in corteo da cavalieri in costume e dalla banda di Rogeno. Come padrino gli fu assegnata la persona più anziana del paese.

Nel 1944, in seguito “a fatiche troppo superiori alla sua età”, la sua salute subì un grave colpo – “ebbe il cuore fortemente scosso” – e, in breve tempo, a causa del sopraggiungere di complicazioni, fu costretto a letto in fin di vita. Assistito dal parroco, che gli impartì anche la benedizione papale, ricevuti i sacramenti, spirò nella notte del 17 aprile. La sua morte giunse inaspettata e suscitò “il più vivo rimpianto” in tutti, ma fu “la morte placida e serena del giusto. Don Caldirola assicurò che “fino all’ultimo comprese quanto gli si suggeriva, pur non potendo parlare”.  I funerali furono celebrati il 20 aprile, partendo dalla cappella di Merone. “Riuscirono davvero imponenti”: vi partecipò tutta la popolazione della parrocchia, ma anche numerosi fedeli e sacerdoti dei paesi vicini, riconoscenti al “cappellano” che tanto li aveva aiutati.

Dopo la morte di don Orsenigo il commendator Miroglio, diventato nel frattempo il “nuovo proprietario di Merone”, non concesse più i locali per l’abitazione del cappellano. Inutilmente il parroco cercò di rivendicarne il diritto, adducendo il fatto che alla cappella era annessa “la cura d’anime”. Non furono reperiti documenti a sostegno della tesi, anzi Miroglio presentò un contratto d’affitto del 1942 con il quale interrompeva la concessione in atto. Al parroco non restò che levare il Santissimo Sacramento dalla cappella, nonostante la promessa del commendatore di “istituire una S. Messa festiva per proprio conto”.[xlvi]

 

 

La chiesa di san Francesco

 

Si trova a Moiana e la sua costruzione risale al XVII secolo. A quell’epoca la chiesa parrocchiale era quella di “San Giacomo della Ferrera”, molto piccola e lontana dall’abitato. Quando San Carlo nel 1574 la visitò, la trovò inadeguata e del tutto insufficiente a soddisfare le esigenze della popolazione; soprattutto giudicò eccessiva la distanza che la separava dalla comunità di Moiana, cosa che rendeva difficoltosa la somministrazione dei sacramenti agli infermi. Anzi capitò che “molti infermi” fossero morti “senza comunicarsi”, perché il sacerdote non era potuto “arrivar a tempo… con il S.mo Sacramento”. Inoltre san Carlo sottolineò anche le difficili condizioni ambientali, che spesso non consentivano un decoroso trasporto del “viatico”: infatti i venti, che sempre soffiavano dal lago, spegnevano abitualmente le candele degli accompagnatori, “il che rendeva irreverenza al S.mo Sacramento”.  

Per questi motivi il Borromeo esortò la popolazione di Moiana a edificare una propria chiesa, indicando anche il luogo più idoneo per la sua costruzione.[xlvii]

I lavori si protrassero a lungo. Durante la visita pastorale che Federico Borromeo fece alla parrocchia nel 1615 la chiesa era ancora in costruzione e il cardinale esortò i signori Carpani – i signori di Moiana il cui palazzo sorgeva proprio dirimpetto alla chiesetta – e tutta la popolazione a ultimare al più presto i lavori e a edificare anche l’abitazione per il rettore. Solo nel 1828, però, i lavori furono ultimati e la chiesa, di forma rettangolare, a un’unica navata, con abside e sacrestia, poté essere aperta al culto.

In origine fu dedicata alla Madonna. Mentre era in costruzione, nei documenti del 1615, è citata sotto il titolo della “Assunzione della Beata Vergine Maria”; al momento della sua “benedizione”, nel 1628, sotto quello della “Annunciazione”. Solo nel 1686 gli atti della visita pastorale del cardinal Visconti la registrarono come “Oratorio di San Francesco”. In tema con queste vicende è la pala dell’altare – una tela del XVII secolo – che raffigura l’Annunciazione della Madonna con san Francesco e sant’Antonio da Padova inginocchiati in venerazione.

Negli atti della visita pastorale del 1752 si dice che alla sommità della chiesa si trovava la cappella in onore di san Francesco; con ogni probabilità era quella su cui la famiglia Ripamonti Carpani esercitava il patronato e alla quale erano annessi benefici per il mantenimento del cappellano. Il visitatore chiedeva che questa cappella fosse delimitata con una piccola inferriata. Per il resto i decreti non contenevano osservazioni di rilievo, segno che l’edificio era in buono stato di conservazione.

Fu, invece, nella seconda metà del XIX secolo che la situazione peggiorò. La chiesa – non si sa a quale titolo ciò fosse avvenuto – era considerata “oratorio comunale”. Un cattivo restauro, come ebbe a dire l’ing. Tiberio Sironi a cui era stato affidato l’incarico di ispezionare l’edificio, l’aveva reso pericolante: infatti, “per una mal intesa estetica”, erano stati tolti dei travetti di legno all’intradosso degli archi che servivano a dare stabilità alla struttura. Così il consiglio comunale di Moiana nella seduta del 5 ottobre 1879 fu costretto a deliberare la chiusura provvisoria della chiesa, perché “minacciava rovina”. L’amministrazione comunale, però, non era in grado “di sostenere le spese di riparazione”. Si ricorse allora alle offerte private dei parrocchiani, che, comunque, non furono sufficienti a coprire l’intero costo del restauro: mancavano “centotre lire”. Erano intanto trascorsi due anni e l’ing. Sironi, lo stesso che era impegnato nella costruzione della nuova chiesa parrocchiale, aveva condotto a termine i lavori. Nella riunione consigliare del 25 settembre 1881, dopo che la sessione primaverile era risultata nulla per mancanza del numero legale, fu deliberata l’assunzione del debito residuo a carico del comune e la chiesa venne riaperta al culto.[xlviii]

Un altro importante restauro avvenne circa cent’anni dopo. Si iniziò nel 1990 con il restauro della pala d’altare, che si era gravemente deteriorata fino a risultare in più parti illeggibile. Nel 1991, su sollecitazione del parroco don Attilio Meroni, fu costituito, in una pubblica assemblea tenuta in chiesa il 25 gennaio, un comitato che si assunse il compito di ottenere le dovute autorizzazioni, anche da parte dell’Intendenza delle Belle Arti, di raccogliere i fondi necessari e di promuovere tutte le iniziative utili a sensibilizzare la popolazione. Fu in questo contesto che nello stesso anno rinacque la festa di san Francesco, arricchita con l’esposizione “Attraverso i cortili di Moiana: vita di paese”.

I lavori furono eseguiti nel 1992. Si trattò di consolidare la struttura verticale dell’edificio, del rifacimento degli intonaci esterni, della sostituzione dei serramenti e dell’intera copertura. Nel 1997, mentre era parroco don Luigi Vergani, fu ristrutturato anche il presbiterio, con la rimozione del vecchio altare, e il restauro delle decorazioni della volta.

Varie furono le forme di finanziamento: le offerte libere, i contributi pubblici e privati, ma soprattutto la sottoscrizione da parte delle famiglie di un impegno per contribuire, in un’unica soluzione o con versamento mensile, al restauro di uno o più metri quadrati di tetto. La risposta fu veramente generosa e consentì di condurre a termine tutti i lavori programmati.[xlix]

Nella chiesetta di san Francesco ha operato, a partire dal 1990, il pittore madonnaro Andrea Mariano Bottoli di Brescia.[l] Sono suoi i due grandi dipinti alle pareti raffiguranti la “Madonna del Rosario” e “San Francesco”; suo è il trittico, collocato in sacrestia, raffigurante “San Francesco che scaccia i demoni” assieme alla riproduzione di un particolare della “Adorazione dei pastori” del Tintoretto. Nel biennio 2000-2001 Bottoli compì l’opera più importante: la Via Crucis. L’artista non ha separato, come è nei canoni tradizionali, in singole stazioni i diversi episodi della Passione, ma ha raffigurato il viaggio di Gesù verso il Calvario in una sequenza continua; inoltre ha dipinto la quindicesima stazione, la risurrezione di Gesù, con un’impronta di assoluta novità: realizzata sul retro dei pannelli mobili della Via Crucis, che risulta pertanto dipinta sui due lati, svolge il tema della risurrezione dei morti, che alla fine del mondo procedono verso Cristo risorto, raffigurato in una grande tela che scende dalla volta sopra l’altare. Il tutto è completato da altri due quadri che, aprendosi per mezzo di un pannello mobile, danno vita a quattro scene distinte: due, “Il passaggio del mar Rosso” e “Il miracolo dell’acqua nel deserto” fatta scaturire da Mosè per dissetare il suo popolo, si ispirano all’Antico Testamento e sono l’anticipazione della nuova vita sgorgata dalla risurrezione; due, “Le donne al sepolcro” e “I discepoli di Emmaus”, traducono in immagini gli episodi evangelici che testimoniano la presenza del Risorto.

 

[i] V. Longoni, I Signori di Carcano, in “Quaderni Erbesi”, vol. XVI, Como 1996.

Longoni cita il documento da lui ritrovato nella perg. n. 2060 della Biblioteca Ambrosiana di Milano. Il testamento fu rogato in Milano dal notaio Gugliemo Capono, detto Borrino, il 14 aprile 1285. Giacomo Carcano, il padre di Guglielmo, compare anche in un precedente documento del 1250 come fideiussore di un debito del monastero milanese di Santa Margherita e si sa che era devoto di san Giacomo. Presumibilmente fu questo il motivo per cui il figlio, dopo aver ripartito gli averi tra i suoi eredi Francino e Tomasino, destinò un lascito per la celebrazione di messe di suffragio nella chiesa di san Giacomo esistente alla Ferrera.

Cfr. A. Molteni, Il Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei in Merone, Merone 1999.

E’ riportata una parte del testamento in cui Guglielmo Carcano, figlio di fu Giacomo “de Merono”, stabilì un lascito al “capitulo de Incino” per la celebrazione di messe “ad ecclesiam Sancti Iacobi prope Meronum”.

[ii] Goffredo da Bussero è autore del Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, una sorta di catalogo di tutte le chiese di Milano.

[iii] Nello “Status ecclesiae mediolanensis” del 1466 della pieve di Incino si dice: “Canonica de Incino habet praepositum cum canonicis XIII; capellani ibidem duo; ecclesiae parochiales cum capelle XXII”.

[iv] Notitia cleri mediolanensis de anno 1398 cum indicatione extimi.

Capella Sancti Iacobi de Merone: Lira 1, soldi 13”.

[v] ASDMi, sez. X, visite pastorali, Pieve di Incino, vol. XII, sec. XVI.

“… mediocriter scribit. Habet peritiam cantus firmi, et figurati…”

[vi] ASDMi, sez. X, visite pastorali, Pieve di Incino, vol. XVII, 1574.

A proposito dell’angustia della chiesa di san Giacomo e della sua eccessiva lontananza da Moiana si legge negli atti della visita: “Ecclesia hec est valde parvula et angusta, et valde distat a loco Moiana et ab omni alia habitatione”.

L’architettura della chiesa era caratterizzata dalla volta che sovrastava l’altare, ma che era ormai vecchia e corrosa: “tota picta sed vetus et corrosa”. Sotto l’arco non era appeso il crocifisso e l’ingresso alla volta era delimitato da un muretto.

A proposito della necessità di edificare una nuova chiesa o di ampliare l’esistente si legge tra l’altro: “ Il Vicario foraneo co’ gli huomini della cura, consideri, et discorra dove si potrebbe trasportare la Chiesa parochiale, acciò sia nel’habitabile, et si fosse bene de grandire la Chiesa di Merone per questo effetto, quasi il sito lo tolerasse, et in questo caso per aiuto degli huomini, essendo bisogno, si daria facoltà, che si potesse alienar qualche bene di questa cura; ovvero li dove adesso è la chiesa sia l’aria tollerabile da potervi abitare, onde si puossi edificarli la casa per il sacerdote, vendendo l’altra…”.

A proposito dell’istituzione della “Scuola del SS. Sacramento” e della conservazione dell’eucarestia nel tabernacolo sull’altare si legge: “Sin tanto che li homini no provvedano di metter la chiesa nella terra o in loco habitato, overo la casa del sacerdote giunta alla chiesa no se li tenga il Santissimo Sacramento ma pur si incammini la scola del Corpus Domini qual habbiamo eretta… acciò si possi accompagnar il Santissimo Sacramento alli infermi con frequentia de persone”.

Ecco, infine, alcune delle disposizioni impartite da san Carlo per rendere la chiesa idonea al culto:

–    Si proveda d’un tabernacolo d’ottone indorato col fondo secondo la forma che sia d’argento;

–    Sotto il piede del Battistero si faccia il suolo alquanto elevato dal pavimento et si pianti sopra di esso una croce bassa che lo circondi col suo usciolo nel mezzo;

–    Si faccino rinfrescar le figure che sono nella niccia dell’altar et accomodar il muro dove è rotto;

–    Si proveda d’una pietra sacrata che sia alla misura quale si faccia inserir nell’altare;

–    Si faccia far la vidriata sula finestra della capella;

–    Si faccino due finestre alla moderna dalla banda destra nello intrar della chiesa et se li mettano le ferrade et ramegna di tela;

–    Si faccia acconciar et indorar il calice et patena profanati…

[vii] ASDMi, sez. X, visite pastorali, Pieve di Incino, vol. XVII, 1574.

Nella relazione della visita al cimitero, che fu trovato completamente cintato da un muro – “undique muris vallatum” – si legge: “… et ibi in capite testudo semidiruta et alia vestigia ecclesie demolite”.

[viii] ASDMi, sez. X, visite pastorali, Pieve di Incino, vol. XVII, 1574.

Negli atti della visita pastorale si parla di due legati: uno con cui Gabriele Frigerio aveva lasciato per testamento “di distribuir in elemosina staia quattro di formento et di far celebrar messe sei l’anno… per anni 24”, impegnando come garanzia alcuni beni da lui posseduti in territorio di Moiana; l’altro di Leone Frigerio, che con il testamento redatto nel 1572 aveva assunto l’obbligo di “distribuir alli poveri di Moiana staia quattro di formento con far celebrare messe otto l’anno per anni dodici”.

A proposito di Giacomo Corti, erede di Gabriele Frigerio, il cardinale impartì le seguenti disposizioni: “Esso Jacomo dia sigurtà nelle mani del Vicario Foraneo entro otto dì di satisfare alli sodetti ordini nostri, et data che l’abbia il Curato l’admetta alla confessione et communione: altrimenti lo publichi per interdetto dallo ingresso della chiesa…”.

[ix] ASDMi, sez. X, visite pastorali, Pieve di Incino, vol. XVII, 1589.

[x] ASDMi, sez. X, visite pastorali, Pieve di Incino, vol. 42, 1618, 2 giugno.

Ecclesia haec est campestris, proculque a pagis Mollianae et Meroni ultra Lambrum posita, et parochianis accessu incomoda…”

[xi] Ibidem

“… ultra Lambrum degentibus…”

[xii] Ibidem

“… domum pro rectoris commoda habitatione prope dictam Ecclesiam aedificent…”

[xiii] Ibidem

“…cis Lambrum degentes

[xiv] Ibidem

Oratorium, seu Ecclesiam S. Catharinae Meroni, populus in longitudinem ac latitudinem ampliari curet, sacristiamque ac turriculam campanarum aedificari…”

[xv] Ibidem

ne cuipiam repentino morbo correpto… sine sacro viatico ex hac vita migrari contingat…”

[xvi] Ibidem

Comparetur tabernaculum decens inauratum, sigillis, columellisque conspicuum, intus serico rubro vestitum, in cuius summa parte sit imago Christi resurgentis… quod postea reportari poterit in decoram Ecclesiam Assumptionis B.V. Mariae dicti loci Mollianae…”

[xvii] Ibidem

Emantur duo vasa aquae lustralis ex lapide saltem molari levigatissimo, quae ab ingressu Ecclesiae latelariter columellis imponantur ut mulieres a viris aqua benedicta sese separatim aspergant…”

[xviii] Ibidem

Et ne antiqua Ecclesia SS. Iacobi et Philippi ullo tempore destruatur, celebrentur in ea duae missae in hebdomada, altera feria secunda per rectorem Mollianae; altera per cappellanum Meroni sexta feria, sub poena iuliorum duorum per quemcumque intermittentem singulis vicibus incurrenda, nisi cappellanus Meroni aliquando intermitterit, quia ob maximos imbres et aquarum excrescentiam, Lambrum sine periculo transvadari non posset…”

[xix] ASDMi, sez. X, visite pastorali, Pieve di Incino, vol. 62, 1686.

“…moderne et elegantis structure…”

[xx] Ibidem

“… ab utroque loco Meroni et Moglianae pari distans distantia…”

[xxi] Ibidem

Venerantur non nullae SS. Reliquiae quarum Nomina ignorantur reposite in duobus vasis ligneis rotondis de quarum recognitione non constat attamen semper exposite fuerunt publicae adorationi et pro sacris reliquiis cultae ut ex attestationibus virorum seniorum…”

[xxii] APMe, Registro dei battesimi, matrimoni e funerali dal 1762 al 1812.

Vi si legge: “Millesettecento Ottantotto a di trenta Gennaro. Carlo Andrea Mauro figlio di Giuseppe abitante in Merone e passato da questa a miglior vita doppo tre giorni della sua nascita… e statto sepolto il di lui cadavere e fu il primo nel nuovo Campo Santo di questa Parrochia…”

[xxiii] APMe, Liber chronicus, vol. I.

Don Rodolfo Ratti così scrive a proposito di don Moranzoni: “Entrato in parrocchia nell’anno 1877, trovò la piccola chiesa parrocchiale che non valeva a contenere nemmeno un terzo della popolazione, numerosa più che 1.200 da 720 che era nell’anno 1842 come consta da nota che conservasi in Archivio.

Per ascoltare la S. Messa, la maggior parte della popolazione dovevasi recare nelle Parrocchie circonvicine; per attendere alla spiegazione della S. Dottrina, le donne si radunavano in Chiesa, gli uomini se ne stavano a cielo scoperto, nella piccola piazza davanti alla chiesa; puossi immaginare quale ne doveva essere il profitto in merito all’istruzione religiosa.”

[xxiv] In alcuni documenti l’ing. Sironi è detto di Cantù.

[xxv] APMe, Liber chronicus, vol. II.

Così la descrisse don Mario Caldirola, iniziando nel 1946 il secondo “Liber chronicus” della parrocchia.

[xxvi] In una nota dell’articolo “Progetto della nuova Chiesa di Mojana con Merone” pubblicato da don Moranzoni nel 1881 sulla rivista “Il Leonardo da Vinci” di Milano si legge: “L’appello fatto nello scorso anno riscontrò eco favorevole non meno nei RR. Sacerdoti che nei Signori laici. Fra i primi meritano particolar menzione Sua Eccell. Illus. e Rev. Nostro veneratissimo Arcivescovo (che benedisse con effusione d’animo l’impresa affermando di non aver in Diocesi parrocchia sì mal provveduta di chiesa) gl’illustrissimi Monsignori Rossi e Lurani Nobile Giuseppe, i Rev.mi Sig. Prevosti d’Alzate, di S. Fedele, di S. Alessandro, di S. Vittore ed il M.R. Sig. Don Tommaso Genolini. Fra i secondi i distinti Signori Isacco Zaffiro, Corti Biagio, Polti Giuseppe, Corti Giovanni e Carlo fratelli, Nobile Carlo Venini, Cav. Giulio Fumagalli, un Nobile Seniore di Milano (la cui modestia non consente la pubblicazione del nome) la Principessa Luigia Rasini v. Anguisosla, la Sig. Maria Polti e Bianca Biraghi m. Beretta”.

[xxvii] Don Rodolfo Ratti nel suo racconto, contenuto nel primo volume del “Liber chronicus”, indica la data del 25 marzo.

[xxviii] APMe, Liber chronicus, vol. I.

[xxix] Ecco il testo dell’articolo “Progetto della nuova Chiesa di Mojana con Merone” pubblicato nel 1881 da don Moranzoni sulla rivista “Il Leonardo da Vinci” di Milano.

L’angustia eccezionale della Chiesa Parrocchiale di Mojana e Merone, dedicata ai SS. Apostoli Giacomo e Filippo, di semplice ed antica costruzione posta sul territorio d’Incino a distanza di pochi passi da Pontenuovo, pose lo scrivente nella dura necessità d’iniziare le pratiche per la costruzione d’una Chiesa nuova più decorosa e più corrispondente al numero ognor crescente dei terrieri per l’adempimento dei loro doveri religiosi. Dietro consenso delle Autorità, il sottoscritto acquistò l’area all’uopo richiesta stralciandola da un fondo costituente il Beneficio parrocchiale, posta in luogo comodo, salubre ed ameno, ne fece scavare dai terrieri le fondamenta e nel giorno 6 marzo dello scorso anno con modesta ma festosa ed esultante funzione si poneva la prima pietra sopra un disegno del bravo ingegnere Sironi di Verano che gratuitamente presta l’opera sua. Principiati i lavori mediante la spontanea ed energica cooperazione manuale dei buoni fedeli, che già da molti anni sentono il bisogno d’una Chiesa più vasta, ed il concorso di pii benefattori, si condussero i lavori a 5 metri fuori terra, ma sventuratamente nel settembre per deficienza di mezzi si dovettero sospendere i lavori. Ora per l’ardore che lo scrivente sente vivissimo di riprenderli, per poter presto raccogliere il popolo all’esercizio del culto ed alla parola divina ed in vista del danno morale ognor più sentito che ne deriva massime per la mancanza d’istruzione religiosa, malgrado la calamità delle annate e delle molteplici evenienze che reclamano le beneficenze del ricco, pur si volge di nuovo supplichevole alla carità delle anime pie fidenti, che memori queste, che a chi dà sarà ricambiato con abbondante misura, e che la limosina libera dalla morte, purga dai peccati e fa trovare la misericordia e la vita eterna, concorreranno di buon animo coll’obolo ed anche con materiali ad un’opera di sì estrema necessità per viemmeglio promuovere nella Parrocchia la gloria di Dio e la salvezza delle anime.

Oh! Voglia il Signore nella sua ineffabile  misericordia, mediante l’intercessione di Maria Santissima, di S. Giuseppe e dei SS. Apostoli Giacomo e Filippo sotto i di cui faustissismi auspici s’aperse la sottoscrizione coronare i voti più ardenti del sottoscritto; e gli sia riempito quel vuoto desolante che sente profondo nell’animo nel vedere i suoi parrocchiani nei giorni festivi starsene o nella più incomoda posizione od a cielo scoperto per assistere alle sacre funzioni.

Le oblazioni si ricevono dalla Fabbriceria, dal sottoscritto ed anche dagli Onorevoli Sindaci dei Comuni costituenti la Parrocchia. I nomi dei riveriti oblatori ogni Domenica saranno dal Parroco ricordati alle orazioni del popolo e all’uopo resi di pubblica notizia mediante apposito elenco.

A fine poi di chiamare vieppiù sugli oblatori più copiose ed elette le Benedizioni del Signore ogni mattina dopo la Messa si reciteranno tre Pater, Ave Gloria implorando l’intercessione di San Giuseppe ed ogni Sabato premessa la recita del Rosario s’impartirà la Benedizione e queste pratiche saranno perpetuate affinché dopo molt’anni tornino anche suffragio ai benefattori defunti.

                                                                                              Sac. Carlo Moranzoni, Parroco.

[xxx] ACMe, cart. 2, cat. 1, cl. 8, fasc. 2, sez. Moiana, anno 1884.

[xxxi] ACMe, cart. 6, cat. 7, cl. 6, fasc. 2, sez. Moiana, anno 1897.

Il sindaco di Moiana  si è servito per la sua risposta (nella cartella è conservata una minuta recante numerose correzioni) di appunti passatigli dal parroco. La seconda parte della lettera, infatti, riporta fedelmente uno scritto sullo stesso argomento, non firmato, ma che la grafia fa senza alcun dubbio attribuire a don Moranzoni.

[xxxii] APMe, Liber chronicus, vol. I.

Il racconto è del parroco don Rodolfo Ratti.

[xxxiii] A. Molteni, Merone. Dall’agricoltura all’industria, Como 1983.

Da pag. 163 a pag. 167 è riportato tutto il carteggio intercorso tra il parroco don Carlo Moranzoni e le amministrazioni di Merone e di Moiana.

[xxxiv] APMe, faldone “Nuova Parrocchiale”, 1891.

[xxxv] ASDMi, sez. X, visite spirituali, Pieve d’Incino, Visita card. A. C. Ferrari, 1898.

[xxxvi] ASDMi, sez. X, visite spirituali, Pieve d’Incino, Visita card. A. C. Ferrari, 1898.

[xxxvii] APMe, Liber chronicus, vol. I.

[xxxviii] APMe, Liber chronicus, vol. I.

[xxxix] Furono calcolate per la copertura del tetto 4.000 tegole: ogni tegola poteva essere acquistata al valore simbolico di 50.000 lire. Le formelle erano 250 e il valore simbolico di ognuna fu 200.000 lire.

[xl] APMe, Liber chronicus, vol. I.

L’espressione è di don Rodolfo Ratti che ricorda la storia della chiesa.

[xli] APMe, Liber chronicus, vol. I.

L’episodio è narrato da don Mario Caldirola, il parroco che accompagnò a Roma la comitiva.

[xlii] APMe, Liber chronicus, vol. II.

Il racconto è di don Mario Caldirola.

[xliii] ASDMi, sez. X, visite pastorali, Pieve di Incino, vol. 62, 1686.

Si legge nei “decreta”: De Oratorio S. Chatarine, V. et M. Loci Meroni. In loco Meroni, quod distat dimidium milliare a Parochiali SS. Jacobi et Philippi locorum Mogliane et Meroni extructum est Oratorium et Catharine V. et M. dicatum. Structure moderne navi unica constans ac dealbatum. Unius in eo est Altare requisitis instructum in quo tamen raro celebratur.

 

[xliv] APMe, Liber chronicus, vol. II.

Don Caldirola suggerisce l’ipotesi che il dipinto dell’Addolorata possa essere di Guido Reni.

[xlv] APMe, Liber chronicus, vol. II.

Don Caldirola si occupò di don Pietro Orsenigo nel “Liber chronicus” in data 19 marzo e 18 aprile 1938, in occasione del 50° anniversario dell’ordinazione sacerdotale, e il 17 aprile 1944, giorno della sua morte, lasciando pagine di sincera stima.

[xlvi] APMe, Liber chronicus, vol. II.

Tutte le citazioni sono tratte dal racconto di Don Caldirola.

[xlvii] ASDMi, sez. X, visite pastorali, Pieve di Incino, S.D. 5.6, 1628.

Lettera del 2 ottobre 1628 indirizzata al cardinal Federico Borromeo perché desse incarico a un suo delegato per la benedizione della nuova chiesa di Moiana.

Ill.mo Rev.mo Sig.

Un pezzo fa’ con licenza de Sig.ri Superiori, et conforme al dissegno datto da Monsignor fabriciero fu datto principio a fabricar un’Oratorio nella terra di Moiana pieve d’Incino dedicato all’Anonciazione della Beata Vergine, et questo nel loco designato dalla S.ta memoria di S. Carlo nel ultima sua visita, che fece della pieve d’Incino, qual parimente fù visitato da V. S. Ill.ma nell’ultima sua visita di detta pieve, nella quale esortò il popolo della detta terra di Moiana a farlo finire, il che hanno fatto perciò recorrono da V. S. Ill.ma humilmente supp.la si degni restar servita di delegar il S. Preosto, o il Sig. Vicario foraneo della detta pieve, overo chi più gli pare, che benedicono detto Oratorio, et parimenti conceder licenza, che se gli possa celebrar messa, acciò che con occasione d’infermi, il parrochiano possi venir ivi a celebrare per poterli poi portar il S.mo Sacramento con magior comodità, et riverenza per esser la gesia parrochial lontana dalla detta terra quasi un milio verso il lago di Pusiano, che per detta distanza molti infermi se ne sono morti senza comunicarsi per non esser potuto arivar a tempo il Parrochiano, con il S.mo Sacramento, et molte volte anchora si estingono li lumi per li venti, che quasi sempre soffiano per detta strada per esser vicina al lago, il che rende irreverenza al S.mo Sacramento, et questa fù la causa principale, che il S.to Cardinale di S.ta memoria esortò detto Populo a far erigere d.o Oratorio per potervi ivi celebrare acciò si obviasse a tutti questi inconvenienti, il che si spera.”

[xlviii] ACMe, cart. 2, cat. 1, cl. 8, fasc. 2, sez. Moiana, anno 1879-1881.

[xlix] L’idea della sottoscrizione fu coinvolgente. Il restauro di un metro quadro di tetto fu fissato in £. 220.000. Vi aderirono 104 famiglie per un totale di £. 48.925.000. L’amministrazione comunale di Merone contribuì con 20 milioni, l’amministrazione provinciale di Como con 25 milioni. Le banche e le ditte locali versarono complessivamente £. 19.750.000. L’impianto di illuminazione fu offerto dalla ditta Miotto Ferruccio di Erba. Vanno aggiunti, inoltre, gli incassi annuali della Festa di san Francesco.

[l] Mariano Bottoli, diplomato alla scuola d’arte sacra “Beato Angelico” di Milano, vincitore di numerosi premi nazionali e internazionali, a partire dal 1991 ha partecipato a tutte le edizioni della Festa di san Francesco di Moiana, realizzando ogni anno un’opera pittorica ispirata al tema proposto dalle esposizioni storico-fotografiche: San Francesco scaccia i demoni; Il genio e l’ingenio; Il mondo degli umani visto dai pesci; Fiamme, fiabe, presenze del camino; Allegoria di san Francesco; La battaglia; I ritratti; Allegoria del baco da seta; Momenti di storia e vita in Brianza; Il lupo ammansito, il lebbroso guarito, la predica degli uccelli; Scene mitologiche al seguito di Andrea Appiani; Apoteosi di san Carlo; Mondo contadino in Brianza.